CONVEGNO FISMO 22/11/2023 – ROMA
INTERVENTO DEL PRESIDENTE FISMO CONFESERCENTI NAZIONALE,
BENNY CAMPOBASSO
Partiamo da un dato ineludibile: il negozio fisico è IMPRESCINDIBILE non solo al commercio dei beni, ma anche alla naturale tendenza ad una aggregazione sociale e di comunità che coinvolga giovani e anziani,è utile al presidio del territorio che in presenza di queste dinamiche diventa più accogliente e sicuro, svolge una funzione di servizio e supporto alle esigenze di intere famiglie, e dà valore alla vita e all’anima di singoli quartieri ed intere città.
Per non parlare dell’aspetto economico: le imprese attive nel commercio al dettaglio solo nel settore della moda sono oggi oltre 92mila con circa 300mila occupati.
Eppure quasi nessuno, al di fuori della nostra Federazione di categoria, che fece un’apposita campagna promozionale durante il Covid, sembra ricordarsene o volerlo sostenere.
Persino durante il Covid il negozio fisico ha rafforzato la sua funzione di servizio in un momento di paralisi dei movimenti e dei trasporti.
Nonostante questo, oggi sembra quasi passare inosservata la grande moria di imprese commerciali e la progressiva desertificazione che priva i cittadini di servizi e i territori di ricchezza e lavoro.
Le ripercussioni sociali delle scelte sbagliate operate in anni recenti dagli amministratori pubblici a favore, per esempio, della grande distribuzione organizzata, sono sotto gli occhi di tutti. Scelte dettate in gran parte dai succulenti oneri di urbanizzazione che derivano dal posizionamento sul territorio di ipermercati, grossi centri commerciali, outlet, senza pensare alle nefaste conseguenze per il tessuto sociale dei centri cittadini. Poca lungimiranza ed esigenze di cassa stanno determinando la morte della vita sociale nelle grandi e piccole città italiane dove le fasce più anziane della popolazione e dei giovani non trovano più centri di aggregazione nei quartieri.
E sembra altresì passare inosservata la sofferenza dei tanti imprenditori commerciali in difficoltà, finiti nelle mani di usurai senza scrupoli e determinati a prendere il controllo dell’attività stessa. Il tutto anche a causa delle sempre maggiori difficoltà ad accedere ad un sistema di credito bancario oramai troppo irrigidito dalle stringenti regole europee.
L’Osservatorio Confesercenti ha rilevato, confrontando dati camerali, un calo di nuove aperture di oltre il 50% tra il 2013 e 2023. Una crisi di denatalità che ha falcidiato il tessuto commerciale – in dieci anni, sono circa 108mila i negozi mai nati – e che, senza un’inversione di tendenza, è destinata a continuare al punto che nel 2030 potrebbe azzerarsi completamente il saldo tra aperture e chiusure.
Insieme alle attività si riducono anche gli occupati italiani, compensati solo in parte dalle aperture e dagli occupati stranieri. Nei centri storici cambia radicalmente il tessuto commerciale con meno negozi tradizionali e più servizi (alloggio, ristorazione). Nelle città la densità commerciale passa da 9 a 7 negozi per mille abitanti.
ANDAMENTO MODA
SITUAZIONE GEOPOLICA, INFLAZIONE, CLIMA
Viviamo, oramai da almeno due anni, una situazione geopolitica a dir poco complicata: due guerre che coinvolgono le economie di molti stati generando un’inflazione che non vedevamo da tanto. La ripresa post pandemica si è miseramente infranta contro questa realtà che tante preoccupazioni e incertezze provoca in ognuno di noi.
Nel 2022 il mercato fashion aveva chiuso con un + 9% a valore, segnale di forte recupero a dimostrazione dell’interesse del consumatore verso il settore seppure ancora con un 3,3% in meno rispetto al 2019.L’intero mercato del fashion ha rappresentato l’anno scorso il 5,2% del Pil nazionale.
Quest’anno però, nel retail, le stime vanno purtroppo riviste al ribasso:
la stagione autunnale partita in ritardo per via del protrarsi delle alte temperature ed una tendenza inflattiva dei prezzi(molto più contenuta dell’inflazione generale ma comunque significativa), stanno condizionando vendite e redditività fortemente determinati dal calo della domanda interna. Nella manovra di bilancio ci sono provvedimenti che vanno nella giusta direzione quali: il rinnovo del taglio del cuneo contributivo e l’accorpamento dei primi due scaglioni delle aliquote Irpef (mille euro in più all’anno in busta paga), ma bisogna osare di più per incoraggiare crescita e competitività.
Nel tempo,come detto, irresponsabili autorizzazioni sono state concesse alla grande GDO e autostrade fiscali sono state aperte all’online(ogni + 10% corrisponde un -3% del fisico) che continua ancora oggi ad alterare gli equilibri di confronto in quello che dovrebbe essere, ma non è, un regime di leale concorrenzialità.
Col tempo però i consumatori stanno lentamente riprendendo ad apprezzare gli acquisti a km 0 e le piccole imprese commerciali hanno compreso finalmente l’importanza dei processi di digitalizzazione e, dopo il momento di panico dovuto all’impennata degli acquisti in rete, hanno intuito che l’online non andava visto come un nemico da demonizzare ma come un’opportunità unica per “allargare” la propria vetrina e rapportarsi diversamente col cliente.
Oggi l’innovazione riveste un ruolo rilevante per lo sviluppo del Retail in Italia e, nonostante le aspettative non rosee, l’investimento in digitale da parte dei principali attori del settore non ha subito una battuta d’arresto: il rapporto tra spesa in innovazione digitale e fatturato è stabile al 2,5%.
COSA STA CAMBIANDO NEL COMMERCIO?
1. L’acquisto nell’era digitale
Capire cosa sta accadendo nelle dinamiche commerciali significa comprendere in anticipo come modificare le proprie strategie e non perdere quella relazione con il cliente che può fare la differenza rispetto ai grandi competitors.
Il primo elemento da osservare rimanda al processo decisionale del consumatore e al suo comportamento di acquisto.
A differenza del passato, nell’era digitale il processo decisionale (“percezione del bisogno-ricerca informazioni- valutazione alternative- decisione di acquisto- comportamento dopo-acquisto”) non avviene più in maniera lineare, ma risulta assai più articolato in ogni suo momento. Ogni fase del processo decisionale di acquisto del consumatore è caratterizzata dalla presenza di una pluralità di elementi – online e off line – che possono influenzarlo, dall’acquisizione di informazioni sul prodotto, al confronto dei prezzi e delle caratteristiche del bene, alla ricerca di valutazioni sull’offerta fatte su un blog o sui social da altri consumatori o dalla comunità di appartenenza, prima di arrivare all’acquisto del prodotto. Senza contare il fatto di poter offrire sul web a propria volta commenti, opinioni e giudizi sulle scelte compiute.
2. E-commerce, commercio fisico e relazione col cliente
Un secondo elemento evolutivo è legato allo sviluppo del canale di e-commercee alla digitalizzazione del servizio commerciale. Una prima forte crescita dell’e-commerce in Italia è stata per lo più trainata dalla vendita di servizi, (ticketing per eventi, turismo e trasporti). Progressivamente gli acquisti online di prodotto (informatica e elettronica, abbigliamento) hanno superato quelli dei servizi, evidenziando un punto di svolta sul mercato.
Su questo costante trend evolutivo si è innestato un imprevisto “effetto lockdown” dovuto all’emergenza sanitaria del Covid- 19: tra gennaio e maggio 2020 si sono contati due milioni di nuovi consumatori online (nel complesso sono 29 milioni).
Tale effetto non deve, però, essere misurato solo in termini quantitativi ma è soprattutto un cambiamento culturale che ha riguardato anche i sistemi di pagamento elettronico.
La fascia di età più attiva negli acquisti digitali è quella tra i 35 e i 44 anni. Oltre l’86% di loro – infatti – ha fatto almeno un acquisto online nell’ultimo mese. Seguono 44-55enni (85%), i 25-34enni (76%), gli over 55 (75%) ed infine i giovanissimi tra i 16 e i 24 anni (65%).
Quanto avvenuto deve accrescere nelle nostre imprese commerciali la consapevolezza sia della rilevanza dell’e-commerce come canale di vendita, sia della necessità di intraprendere definitivamente la logica OMNICANALE (1 PUNTO), ovvero la capacità di integrare touchpoint fisici e digitali sviluppando soluzioni di vendita in grado di considerare non più una singola modalità di acquisto, ma una gestione integrata tra online e offline. Ciò significa comprendere che non esiste più una tipologia di cliente che fa solo la spesa in negozio o un’altra di chi la fa solo online, ma lo stesso cliente acquista ovunque, utilizza una app per localizzare il negozio più vicino, ricevere sconti e proposte personalizzate.
La grande maggioranza (84%) dei consumatori preferisce i canali online solo per quanto riguarda il processo decisionale mentre il 53% preferisce prendere la scelta definitiva all’interno del punto vendita dato che il 76% necessita specificamente dell’assistenza e del supporto del staff del negozio. Quest’ultimo elemento dimostra quanto sia sempre più importante la FORMAZIONE (2 PUNTO) del personale. L’addetto alla vendita deve essere in sintonia con il cliente che ha davanti. E tale sintonia vive del cambiamento digitale.
Altro elemento importante è che il cliente non è più anonimo. Il cliente desidera essere “conosciuto”, avendo sempre meno tempo a disposizione, oltre a essere aiutato nelle scelte di acquisto vuole ricevere offerte ed essere al corrente di promozioni, opportunità e servizi personalizzati ma non vuole essere “disturbato” a caso. La PROFILAZIONE diventa fondamentale. Chi vende deve riuscire a coniugare riservatezza, discrezione, cura e attenzione passando per una offerta di servizi online e fisici.
Non solo vendita ma anche, tramite il social, commercio “conversazionale”, che può essere veicolato tramite servizi di messaggistica istantanea come WhatsApp. Una RELAZIONE (3 PUNTO) continua con il cliente, che non può essere che trasversale su ogni canale.
Fino a oggi, si è sempre ritenuto che il prodotto fosse vendibile solo per la sua bellezza e qualità intrinseca, sottovalutando il valore della relazione. (CUSTOMER CENTRICITY, CUSTOMER OBSESSION)
3. Cambio generazionale: sostenibilità
Un terzo elemento è riconducibile al cambiamento dell’offerta commerciale in risposta alla domanda delle nuove generazioni. Queste si caratterizzano per un utilizzo delle nuove tecnologie ma soprattutto per un sistema di preferenze, abitudini di consumo e comportamento di acquisto assai differenti rispetto a quelle precedenti.
E’sempre più comune vedere, nei nostri punti vendita, giovani ragazze e ragazzi consultare le etichette cercando informazioni sui luoghi e sui materiali di produzione di un capo prima di indossarlo o acquistarlo.
Queste ragazze e questi ragazzi sono le avanguardie di un comportamento di consumo più responsabile che spinge, da un lato, verso acquisti qualitativamente più mirati e, dall’altro, verso marche di prodotti che riflettono, nella dimensione economica, i valori dell’essenzialità, della salute e dell’ambiente (es. materie prime naturali, processi produttivi sostenibili, basso impatto ambientale).
Da qui la necessità ma soprattutto l’OPPORTUNITA’per le nostre imprese commerciali di comprendere anche i bisogni di consumo e le esigenze di servizio da parte di cittadini-consumatori nativi digitali che guardano con sospetto alle collezioni della fast fashion. E questo è un altro punto a favore del piccolo commercio di qualità.
Sostenibilità(4 PUNTO) è soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni, riducendo lo spreco di risorse e materiali, riciclando materiali di scarto per produrre nuovi tessuti, tingendo evitando di utilizzare l’acqua, progettare abiti che a fine ciclo abbiano la capacità di biodegradarsi.
E’ un fenomeno assolutamente da non sottovalutare, Ricordiamoci che qualcosa del genere è già avvenuto, a cominciare dagli anni ’90 nel settore della PELLICCERIA: un movimento poco più che folcloristico in pochi anni ha visto la sua causa contro la cruelty free sposata da personaggi dello spettacolo e attori che hanno determinato la sostanziale scomparsa di uno dei nostri più proficui e apprezzati settori dell’abbigliamento di lusso.
L’industria della moda dà lavoro a più di 75 milioni di persone nel mondo ed ha una filiera ad alta manualità dove ancora si raccoglie a mano il cotone, si cuce, si ricama, si tinge e si stampa. L’impatto sull’ambiente è notevole e anche se la situazione sta migliorando, la moda rimane una delle industrie più inquinanti al mondo,responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, del consumo di circa 93 miliardi di m3 di acqua, oltre a scaricare nei mari circa 500.000 tonnellate di microfibre edi prodotti chimici inquinanti.
Oggi inizia a usarsi il cotone organico, non vengono usati pesticidi o fertilizzanti. Ma è solo una nicchia.
La bulimia del consumo degli ultimi decenni, dovuta all’offerta sul mercato di nuovi prodotti a basso costo e di pessima qualità, ha creato enormi problemi di smaltimento (Armadi Pieni su Youtube). Si è passati dalle tradizionali quattro collezioni all’anno alle 52 della Fast Fashion. Questo fenomeno, come sappiamo, ha contribuito a uniformare l’offerta commerciale in tutto il mondo provocando la chiusura di tante attività commerciali locali che offrivano gusto, originalità e identità culturale. Ma la regola è semplice e vale in ogni contesto: se un capo d’abbigliamento costa troppo poco, non può in nessun modo essere sostenibile: qualcuno ci sta rimettendo, che sia l’ambiente, i lavoratori o entrambi.
Addirittura le eccedenze vengono spesso bruciate per evitare di sminuire il valore della merce sul mercato.
Inoltre il 25% degli acquisti di abbigliamento online vengono resi e mai più rimessi sul mercato perché il costo del ricondizionamento è spesso più alto del valore.
La Fismo non può non evidenziare che le condizioni di lavoro nel tessile sono pessime in molte zone del mondo: siamo davanti ad una massa di operai e operaie senza alcun diritto riconosciuto, sfruttati, con orari di lavoro pesanti e paghe da fame.
Ambiente e diritti dei lavoratori si completano a vicenda e sono il cuore della sfida al cambiamento ma noi dobbiamo essere pronti, nel nostro interesse, a rispondere alle sollecitazioni che il nuovo mercato ci sottopone.
Fortunatamente iniziano a “farsi largo” tessuti che derivano da scarti di cibo tipo le bucce d’arancia (Ferragamo: Orange Fiber), dall’ananas, dalle mele e dal vino.
In questo senso va L’articolo 8 del DL del Made in Italy che promuove e sostiene gli investimenti, sul territorio nazionale, la ricerca, la sperimentazione e l’innovazione dei processi di produzione di fibre di origine naturale, nonché provenienti da processi di riciclo, con particolare attenzione alla certificazione della loro sostenibilità autorizzando la spesa di 15 milioni di euro per l’anno 2024.
Il prodotto deve tornare a rispettare i canoni di bellezza, originalità, qualità e durata, che da sempre contraddistinguono la qualità italiana.
Queste sono le istanze che i giovani rivolgono quando si avvicinano ai nostri negozi per fare acquisti: preferiscono l’acquisto fisico per poter verificare che il prodotto abbia quelle caratteristiche per loro imprescindibili; dar loro delle risposte adeguate offrendo prodotti di qualità ci distinguerebbe dai grandi marchi della moda veloce fidelizzando una giovane clientela con grandi prospettive di crescita.
4. Commercio e comunità
Il quarto elemento è, infine, connesso alla riscoperta del servizio di prossimità e allo stretto legame del commercio con la comunità, che ha assunto un’ulteriore accelerazione durante l’emergenza sanitaria. In questa situazione, infatti, i consumatori hanno “forzosamente” recuperato il valore di questo servizio durante le fasi più dure dell’emergenza attraverso la vicinanza geografica dei punti vendita per l’acquisto dei prodotti essenziali.
Quindi centralità nella relazione con la comunità e con le Istituzioni anche attraverso forme di partenariato pubblico/privato che consentano una programmazione comune sulla rigenerazione urbana, altro elemento indispensabile alla crescita del tessuto commerciale delle città (esperienza del Distretto Urbano). Arredo urbano, parcheggi, trasporti sono anch’essi imprescindibili dalle politiche di sviluppo commerciale che un’associazione di categoria come la nostra deve essere in grado di governare e consigliare.
La divisione strategica per categorie, dove ognuno pensa al proprio benessere individuale, non ha futuro; il fai-da-te non funziona più. Serve una visione unica ed un comune progetto condiviso per valorizzare un territorio, una piazza, una via, un centro commerciale naturale.
DDL MADE IN ITALY
Abbiamo preso atto con piacere e soddisfazione dell’impegno del governo nel delineare un disegno di legge mirato al Made in Italy e che, inevitabilmente, interseca alcune nostre storiche proposte che iniziano finalmente a trovare risposte. E’ un progetto che riempie e dà sostanza ad una definizione che pur indicando l’eccellenza del prodotto italiano non aveva mai avuto contenuti pratici e tangibili.
Significativa è l’articolazione di alcuni punti chiave:
• ART.3La Repubblica riconosce il giorno 15 aprile di ciascun anno quale “Giornata nazionale del made in Italy”, al fine di celebrare la creatività e l’eccellenza italiana, presso le istituzioni, le istituzioni scolastiche del primo e del secondo ciclo di istruzione e i luoghi di produzione e di riconoscerne il ruolo sociale e il contributo allo sviluppo economico e culturale della Nazione e del suo patrimonio identitario.
• ART.5 Rafforzare il sostegno alle iniziative di auto imprenditorialità e allo sviluppo di nuove imprese femminili su tutto il territorio nazionale.
• ART. 13 è introdotta l’opzione made in Italy nell’ambito dell’articolazione del sistema dei licei.
• ART. 15 È istituita l’Esposizione nazionale permanente del made in Italy con l’obiettivo di promuovere e rappresentare l’eccellenza produttiva e culturale italiana attraverso l’esposizione dei prodotti della storia del made in Italy e dell’ingegno italiano.
• ART. 31 è adottato un contrassegno ufficiale di attestazione dell’origine italiana delle merci.
ART. 43 Modifiche al codice di procedura penale in materia di distruzione delle merci contraffatte oggetto di sequestro.
(Un sondaggio OCSE denuncia un commercio globale di prodotti contraffatti in violazione di marchi registrati italiani di 24,3 miliardi di euro, per la maggior parte nel settore dell’abbigliamento. Per non parlare poi del fenomeno all’estero dell’italian sounding.)
PROPOSTE FISMO
– Promuovere la riallocazione della produzione in Italia. Le interruzioni nella catena di approvvigionamento hanno avuto un impatto devastante durante la pandemia. Vista l’importanza della filiera della moda per il PIL italiano, l’iniziativa pubblica deve includere iniziative fiscali per le imprese che decidano di trasferire o stabilire un ciclo produttivo completo in Italia;
– Promuovere e finanziare modelli di slow fashion, che favoriscano la diffusione di prodotti di qualità, valorizzando di conseguenza le produzioni locali e il Made in Italy. Questo modello è opposto a quello basato sulle collezioni (fast fashion) che al contrario prevede l’acquisto di molti capi di bassa qualità, che durano meno ed alimentano la produzione di rifiuti;
– Promuovere e sostenere lo sviluppo di una certificazione per i prodotti italiani che rispettino criteri di sicurezza e sostenibilità. Tale certificazione sarebbe funzionale ad arricchire il concetto di Made in Italy, già sinonimo di qualità, con gli elementi della sostenibilità valutati sempre più positivamente dai consumatori; (ART. 32 DL MII)
– Promuovere e agevolare fiscalmente la digitalizzazione dei punti vendita. Creare un percorso di formazione professionale dedicato ai processi ed agli strumenti di trasformazione digitale del sistema moda; I negozi fisici e online sono due realtà, differenti ma complementari;
– Regolamentare con maggior rigore il rispetto delle regole, soprattutto fiscali, spesso eluse dalle grandi piattaforme digitali mediante l’introduzione di una Web Taxadeguata al fine di ripristinare un regime di leale concorrenza; (caso Airbnb)
– Applicare sempre maggiori controlli e sulle merci contraffatte (ART. 43 E 46 DL MII)
– E sulle innumerevoli campagne promozionali quali il Black Friday che oramai interessano periodi troppo prolungati e creano dannose ripercussioni su tutto il settore;
– Saldi: riportare i saldi all’antica natura per cui sono nati ovvero svendite di fine stagione ma contestualmente incentivare con forza (!!) i controlli sulle svendite effettuate in prossimità dei saldi stessi; i saldi sono, ancora oggi, l’unica promozione veramente regolamentata a garanzia dei consumatori;
– Migliorare le commissioni interbancarie applicate all’uso della moneta virtuale;
– Prevedere una decontribuzione per i giovani che avviano una nuova attività commerciale e un regime fiscale di vantaggio per gli esercizi sotto i 400mila euro di fatturato l’anno, magari da legare ad obblighi di formazione;
– Incentivare una politica di alleggerimento fiscale e di aiuti di carattere contributivo atti a sostenere le famiglie al fine di liberare risorse da destinare anche ai consumi;
– Riconoscere un marchio BOTTEGA STORICA promuovendo la conoscenza e la valorizzazione delle attività commerciali e artigianali aventi valore storico, artistico, architettonico e ambientale, che costituiscono testimonianza della storia,dell’arte, della cultura e della tradizione imprenditoriale italiana prevedendo specifiche convenzioni per l’accesso al credito o forme di agevolazione in materia di tributi anche locali e determinando criteri di premialità nell’ambito dei bandi relativi all’innovazione, alla valorizzazione e alla tutela delle imprese.
In conclusione:
Coco Chanel diceva che “La moda non è un qualcosa che esiste solo sotto forma di abiti. La moda è nel cielo, nelle strade, la moda ha a che fare con le idee, il modo in cui viviamo, ciò che accade”.
Io ritengo che il commercio al dettaglio, a cominciare dal nostro settore, possa vincere la sfida anche con i giganti della rete imparandone l’utilizzo ma pretendendo allo stesso tempo l’uniformità di regole, soprattutto fiscali, perché ci si possa confrontare in un regime di libera ma leale concorrenza.
I nostri negozi forniscono opportunità di lavoro più resilienti, trattengono i profitti sul territorio, rispettano l’ambiente, aiutano a combattere quella che Georg Simmel definiva la “solitudine urbana” e, infine sono, nonostante tutto, una vera forza economica trainante per il nostro Paese.
Il nostro impegno come imprenditori ma ancor più come componenti della famiglia Confesercenti è la risultante di tutto questo: consapevolezza di essere protagonisti di un cambiamento epocale in corso, necessità di esserne parte attiva governandolo per non rischiare di esserne travolti sempre convinti che le nostre imprese e quelle che rappresentiamo sono una ricchezza unica e irripetibile per l’Italia. Senza di esse il nostro Paese non sarebbe più lo stesso.